Indici precoci di demenza nel Parkinson

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 05 giugno 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La malattia di Parkinson, seconda solo alla malattia di Alzheimer per frequenza fra le patologie neurodegenerative ad insorgenza nell’età adulta, con un’età mediana di esordio clinico di 62 e un’incidenza nel sesso maschile superiore a quella del sesso femminile, è isto-patologicamente caratterizzata da una massiccia perdita di neuroni dopaminergici nella parte compatta della substantia nigra (SNc) mesencefalica, dalla conseguente perdita dei neuroni riceventi dello striato e dalla disfunzione poi seguita da necrosi di numerose altre popolazioni neuroniche, tutte identificabili per la presenza di inclusioni eosinofile citoplasmatiche, costituite da aggregati proteici insolubili e dette corpi di Lewy[1] quando reperite nel citoplasma del pirenoforo o inclusioni neuritiche di Lewy quando presenti nei neuriti.

Clinicamente esordiente con bradicinesia, acinesia, tremore a riposo (4-6 Hz), rigidità cerea dei muscoli, postura lievemente flessa in avanti, instabilità posturale, passi piccoli, movimento spontaneo di indice e pollice come nel contare banconote, presenta una dicotomia tra forme rare monogeniche (forme autosomico-dominanti[2] e forme autosomico-recessive) e forme comuni geneticamente complesse che sono con ogni probabilità causate da interazioni tra fattori ambientali e genetici.

Negli ultimi decenni la ricerca sulla patologia ha progressivamente cambiato la visione tradizionale di malattia dovuta a degenerazione nigro-striatale selettiva, non solo includendo nuove prospettive di studio circa la componente gastroenterologica nella patogenesi e la diffusione prionica delle proteine alterate, ma anche documentando un danno molto più diffuso e vario di quanto si ritenesse in passato. La classificazione quale malattia dei gangli della base con inclusioni di Levi nei neuroni dopaminergici della SNc oggi può ritenersi una caratterizzazione incompleta della fase iniziale. Già le serie autoptiche avevano dimostrato che i corpi inclusi si reperiscono anche fuori dell’ambito mesencefalo-striato, nel bulbo olfattivo, in altre sedi del tronco encefalico e nelle cellule del sistema nervoso del tratto gastroenterico (Braak et al., 2003). Queste alterazioni patologiche possono costituire fasi non-motorie precoci della malattia, che possono contribuire a spiegare un fatto spesso documentato nelle anamnesi, ovvero che la sintomatologia motoria è stata preceduta a lungo da anosmia, depressione o disturbi del sonno.

Le anomalie motorie cardinali del Parkinson dipendono in gran parte dalla degenerazione dei neuroni dopaminergici della SNc, accompagnata da risposte infiammatorie di basso livello che possono contribuire alla necrosi cellulare. Gli studi animali e di neuroimmagine dell’encefalo di pazienti hanno suggerito che la perdita dei neuroni della SNc porti ad un rapido declino della concentrazione di dopamina striatale, che diventa rilevabile come parkinsonismo clinico quando più del 70% della dopamina striatale è perduta, cosa che avviene quando si giunge alla morte del 50% delle cellule nervose della SNc. Nelle fasi iniziali della malattia di Parkinson, la perdita di dopamina interessa primariamente il putamen posteriore, ovvero l’area motoria striatale; nelle fasi successive della malattia la perdita di dopamina diviene più estesa.

La perdita dei neuroni segnalanti mediante la catecolamina ha conseguenze che si manifestano come cambiamenti secondari nelle aree in cui questi neuroni in condizioni fisiologiche proiettano i loro assoni e, in primo luogo, i nuclei putamen e caudato, dove le cellule nervose riceventi perdono i dendriti e progressivamente vanno incontro a degenerazione. Da qui tutte le alterazioni della fase avanzata che rendono conto dei sintomi non motori delle fasi più avanzate.

Recentemente ho affrontato il problema del declino cognitivo nella malattia di Parkinson: “In ogni caso, come la nostra scuola neuroscientifica sottolinea da circa un ventennio, la considerazione della malattia come disturbo esclusivamente motorio ha rallentato lo studio delle componenti e dei processi che determinano il declino cognitivo nelle fasi avanzate di evoluzione clinica”. E ho ricordato: “La deposizione e la diffusione di proteine alterate nella configurazione, quali l’α-sinucleina e la tau, da tempo sono state associate alla disfunzione cognitiva nella malattia di Parkinson, ma solo di recente l’attenzione dei ricercatori è stata attratta dal sistema glinfatico[3], che può svolgere un importante ruolo protettivo mediante l’eliminazione di queste proteine tossiche grazie al flusso del fluido cerebrospinale (CSF, o liquor) attraverso gli spazi perivascolari e interstiziali. Studi recenti hanno scoperto che l’attività globale del cervello dipendente dal sonno è strettamente associata al flusso del CSF che può riflettere la funzione glinfatica”[4].

Anamaria Jurcau e Vharoon Sharma Nunkoo hanno condotto uno studio per identificare indici (marker) del rischio di sviluppare demenza nella malattia di Parkinson.

(Anamaria Jurcau & Vharoon Sharma Nunkoo, Clinical Marker May Identify Patients at Risk for Early Parkinson’s Disease Dementia: A Prospective Study. American Journal of Alzheimer’s Disease & Other Dementias – Epub ahead of print doi: 10.1177/15333175211021369, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: Neurology Ward, Clinical Municipal Hospital Curteanu, Oradea, Oradea (Romania); Faculty of Medicine and Pharmacy, Oradea, Oradea (Romania).

Si riportano a scopo introduttivo alcuni brani dall’articolo già citato del 22 maggio.

La malattia di Parkinson costituisce un grande problema neurologico in quanto patologia neurodegenerativa inguaribile che colpisce l’1-2% della popolazione al di sopra dei 65 anni, seconda per frequenza solo alla malattia di Alzheimer. La classica terapia sostitutiva con L-Dopa che soddisfaceva i clinici del secolo scorso, quando l’associazione con gli inibitori della Dopa-decarbossilasi periferica (benserazide, carbidopa) migliorava notevolmente la prognosi e la qualità della vita di pazienti in precedenza considerati intrattabili, non può più soddisfare le aspettative attuali, non solo per gli effetti collaterali che emergono prima o poi nei trattamenti protratti, ma perché il procedere della neurodegenerazione, che non interessa solo i neuroni dopaminergici nigrostriatali ma anche altre popolazioni di cellule nervose della corteccia, dell’ippocampo e di altri territori dell’encefalo, progressivamente compromette le condizioni psicofisiche generali in persone che potrebbero ancora condurre una vita attiva.

Infatti, il notevole aumento della durata media della vita e della popolazione in età geriatrica, propone un gran numero di persone anche di vent’anni più anziane dei pazienti di Parkinson che conducono una vita sociale intensa e soddisfacente. Il quadro clinico, dominato da tremore a riposo, rigidità, bradicinesia, squilibrio posturale e deambulazione a piccoli passi, consente di porre facilmente la diagnosi, ma quando tali sintomi sono evidenti, la perdita di neuroni per degenerazione del sistema dopaminergico a proiezione nigro-striatale è già in fase avanzata e la necrosi neuronica è già presente in altre sedi encefaliche.

La conoscenza della biologia molecolare della malattia ha fatto enormi progressi, specialmente grazie all’identificazione di varie mutazioni geniche responsabili dei rari casi familiari, ma il trattamento è rimasto prevalentemente patogenetico-sintomatico e, nonostante i numerosi tentativi con le nuove strategie sperimentali (trapianto di cellule staminali, DBS, ossia Deep Brain Stimulation del nucleo subtalamico, anti-ossidanti, fattori di crescita, ecc.), può considerarsi ancora insoddisfacente[5].

Una spiegazione dei risultati deludenti rispetto agli studi preclinici, che noi abbiamo proposto all’attenzione di neurologi e ricercatori già da un paio di decenni, è che al momento dell’emergere clinico dei sintomi è già andato perduto oltre il 60% dei neuroni dopaminergici. In altri termini, sarebbe troppo tardi in rapporto a fisiopatologia e progressione della malattia. Un’altra ragione è, naturalmente, che queste strategie non affrontano direttamente il nodo dei processi che causano la degenerazione, e non sono dunque in grado di compensare la disfunzione cellulare, agendo su altri aspetti della patologia.

Le direzioni della ricerca in cui si stanno compiendo progressi includono il misfolding e l’aggregazione di proteine come l’α-sinucleina, la diffusione delle proteine alterate col meccanismo dell’attivazione dei prioni, la disfunzione mitocondriale e il malfunzionamento di vie di controllo della qualità intracellulare, come la funzione delle proteine chaperone e la degradazione proteasomica e lisosomiale delle proteine. Di recente ha attratto l’attenzione anche l’approccio gastroenterologico alla patogenesi. Se considerate nel complesso, tutte le nuove acquisizioni cancellano la concezione clinica del semplice disturbo motorio e indicano nella partecipazione alla neurodegenerazione delle popolazioni cellulari diverse da quella dopaminergica l’aspetto di maggior rilievo in quest’epoca in cui si riesce temporaneamente a rimediare alla perdita dell’effetto dopaminergico ma non si riesce a porre un ostacolo alla perdita di tutte le altre classi di neuroni, incluse quelle delle reti corticali e sottocorticali della cognizione.

Già dieci anni or sono sottolineavo, introducendo la malattia di Parkinson, che il progressivo decadimento delle facoltà intellettive è più frequente di quanto si pensi, implicitamente superando la concezione di disturbo esclusivamente motorio della neurologia classica:

“In questo modo nel 1817 James Parkinson descrisse le caratteristiche sintomatologiche salienti del disturbo neurologico denominato con il suo eponimo e definito “morbo”: movimenti involontari con carattere di tremore, accompagnati da diminuzione della forza, non rilevabili nelle parti del corpo a riposo e nemmeno in quelle sostenute; una tendenza alla flessione in avanti del tronco e a passare da una deambulazione normale a un passo di corsa, con conservazione delle facoltà intellettive.

A duecento anni di distanza questa descrizione clinica è sostanzialmente valida, anche se può essere integrata da elementi tratti da una più precisa semeiotica di osservazione: il tremore (da 4-5 fino a 7-8 scosse al secondo) , ad esempio, è evidente nella mano ferma non trattenuta dall’altra mano o impegnata ad afferrare, e si distingue dal tremore di origine cerebellare che si accentua nello sviluppo intenzionale dell’azione; la conservazione delle facoltà intellettive è una caratteristica che bene si spiega sulla base di una degenerazione in gran parte confinata alla componente originata dalla parte compatta della sostanza nera del sistema nigro-striatale, ma l’associazione di un decadimento cognitivo che evolve in un quadro di demenza è meno rara di quanto si ritenesse un tempo.”[6]

Anamaria Jurcau e Vharoon Sharma Nunkoo hanno reclutato per il loro studio 103 pazienti affetti da malattia di Parkinson senza alcun sintomo di deterioramento cognitivo e li hanno sottoposti a valutazione baseline mediante varie scale standardizzate. 89 pazienti sono stati sottoposti a verifica di follow up a tre anni di distanza.

Alla fine dello studio il 43,8% dei pazienti aveva sviluppato demenza. L’articolo fornisce il dettaglio dei punteggi del MiniMental e di tutte le altre scale che hanno stimato anche il ritmo sonno-veglia e la funzione digerente. La sintesi concettuale è quanto mai breve, ma significativa: i pazienti che presentano 1) disfunzione del sistema nervoso autonomo e 2) insonnia sono a rischio elevato di sviluppare demenza e richiedono uno stretto monitoraggio dei sintomi cognitivi.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-05 giugno 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] In italiano si continua a usare questa espressione dovuta ad un equivoco nella traduzione: la parola corpo (body) non era riferita agli inclusi, ma al soma o corpo cellulare del neurone; dunque, Lewy bodies vuol dire “inclusioni di Lewy dei corpi cellulari”, e così Lewy neuritis “inclusioni di Lewy dei neuriti”.

[2] Le prime mutazioni (autosomico-dominanti) identificate quale causa della malattia di Parkinson sono localizzate nel gene SNCA codificante l’α-sinucleina, una piccola proteina presinaptica che modula il rilascio di neurotrasmettitore e il ricambio delle vescicole e, alterata e aggregata, è il maggiore costituente degli inclusi di Lewy.

[3] La scoperta di vasi linfatici meningei dell’encefalo intorno ai seni durali, pubblicata da Loveau e colleghi su Nature nel 2015, portò all’individuazione di un sistema di depurazione del fluido interstiziale dell’encefalo e del midollo spinale attraverso uno scambio di soluti extracellulari col fluido cerebrospinale (CSF) e mediazione gliale. Alla ricercatrice danese Maiken Nedergaard si attribuisce il conio della denominazione glymphatic (glinfatico) per indicare una funzione linfatica a mediazione gliale. La clearance è favorita dalle pulsazioni arteriose e regolata nel sonno da espansione e contrazione dello spazio extracellulare. Queste ricerche sono state presentate nelle nostre recensioni.

[4] Note e Notizie 22-05-21 Declino cognitivo nel Parkinson causato da svincolo del liquor. Lo studio di Feng Han e colleghi dimostra che il disaccoppiamento tra attività funzionale del cervello e flusso di CSF è associato al deficit cognitivo nella malattia di Parkinson.

[5] Note e Notizie 07-03-15 BAG1 è neuroprotettiva in modelli della malattia di Parkinson.

[6] G. Rossi, Origine delle oscillazioni beta-patologiche nel Parkinson, in “Note e Notizie” 02-07-11 e Note e Notizie 17-12-11 Meccanismo di induzione del Parkinson da paraquat.